[Reperto archeologico scovato in una vecchia memory stick. Nei primi anni duemila, ho scritto vari reportage da Moldavia e Romania, usciti su Diario, D di Repubblica, Notizie dall’Est. Questo usci su Grazia]

AMICIZIE FERROVIARIE Una scritta, dipinta con il normografo, ricorda che i vagoni del treno “Prietenia” (amicizia in romeno) sono stati costruiti nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR). I corridoi sono arredati con ghirlande di fiori finti, i finestrini coperti da tendine con la mantovana di stoffa damascata; ovunque ci sono tappeti dalle decorazioni orientali. Le carrozze ballano sui binari come carri sui sentieri di campagna. Per percorrere i seicento chilometri che separano Bucarest da Chisinau, la capitale della Moldavia, occorrono almeno tredici ore. Il personale a bordo è prevalentemente femminile; donnone dalle sembianze di governanti teutoniche sistemano le persone negli scompartimenti, offrendo caffè o tè per arrotondare la paga. L’autunno é mite, ma la notte scende presto e avvolge il treno lasciando intravedere solo di tanto in tanto le poche luci degli agglomerati urbani. L’odore dell’alcol arriva a zaffate dalle carrozze dove gruppi di viaggiatori improvvisano banchetti. L’Italia, vista da qui, è una versione remix dell’italiano vero di Toto Cotugno, che canticchiano nello scompartimento di fianco accompagnando una radiolina accesa per alleviare la notte.

OCCHIO, GALLINE A BORDO. La stazione degli autobus di Chisinau si trova nel bel mezzo del mercato, un via vai senza sosta di donne e uomini di ogni età. I contadini dei villaggi intorno alla capitale trascinano casse di ortaggi, animali al guinzaglio e prodotti vari tra le pensiline dove molti aspettano l’autobus. Ovunque gente che si agita, mercanteggia, sbuffa e ciarla. Dentro la stazione, una fila di slot-machine copre l’enorme mosaico sovietico, raffigurante contadini, grano, operai e arnesi da lavoro. Alla pensilina 13 c’è la corriera per Soroca. Una decina di persone sono in attesa. L’autista, intanto, rassetta il cruscotto del veicolo e rimette ordine tra i numerosi gagliardetti, spille e icone religiose che decorano lo spazio di guida. All’ora stabilita si parte. Chisinau resta subito alle spalle. La corriera percorre una sottile e accidentata lingua d’asfalto che taglia chilometri e chilometri di colline di girasoli, grano e vite. Lungo la strada, in corrispondenza di viottoli sterrati, gruppi di contadini aspettano l’autobus. Di tanto in tanto, come paletti posti a marcare il territorio, appaiono monumenti al contadino socialista, insegne colorate, ma ormai scrostate, delle aziende collettive sovietiche. La radio è sintonizzata su una stazione che trasmette senza sosta musica tecno russa. Il volume è incredibilmente alto. Una donna anziana sputacchia le bucce dei semi di girasole sul pavimento e sembra non farci caso.

ALLA CORTE DEI ROM Soroca appare dopo centocinquanta chilometri. Distesa lungo la riva sinistra del fiume Prut, dall’altro c’è l’Ucraina. In lontananza, quando l’ingresso del villaggio è ancora distante, si scorge quella che i locali chiamano la ‘collina degli zingari’, dove risiedono circa cinquemila Rom. Dopo la monotonia dell’architettura sovietica si ha l’impressione di giungere in un museo dell’architettura a cielo aperto: tetti di latta lavorati a mano, guglie e pennacchi, pagode cinesi e fontane di marmo bianco con statue di coccodrilli a fare la guardia, leoni e capitelli dorici, ionici e corinzi, stucchi e marmi, archi moreschi e balconi liberty in ferro battuto. La ‘collina degli zingari’ è una sarabanda di innesti, di accostamenti spettacolari, un trionfo del kitch e della fantasia.

Nella Moldova che guarda al passato sovietico con malinconia, i Rom di Soroca sono stati capaci di trovare le risorse e lo spirito per cavalcare i nuovi tempi. Imprenditori, commercianti, mediatori e faccendieri, le famiglie rom hanno tratto beneficio dalla loro abilità a costruire e mantenere relazioni dentro e fuori il paese.

Ma non tutti i Rom sono ricchi. Gli abitanti di Soroca sono visti come una specie di aristocrazia zingara dagli altri. Una cosa a parte. La maggioranza, sottolinea una giornalista locale, “vive come il resto della popolazione, senza distinzioni di appartenenza etnica. Un tempo lavoravano nelle fattorie collettive e ora, con la privatizzazione, in molti possiedono piccoli appezzamenti di terra”. Questo non significa che vivano bene, la Moldova è comunque il paese più povero d’Europa, ma, per lo meno, condividono la medesima sorte del resto della popolazione.

GLI ULTIMI COMPAGNI Mi dirigo verso est. Destinazione Tiraspol, la capitale dell’inventata “Repubblica Socialista Sovietica di Transnistria”. Il mio vicino non parla volentieri: c’è diffidenza e anche una certa preoccupazione nell’aria. La nuova amicizia del governo moldavo con l’Unione Europea rischia infatti di provocare un’escalation del conflitto latente tra il governo centrale e la regione secessionista a est del fiume Dniester, che 15 anni fa, con l’avallo di Mosca, si autoproclamò indipendente. La regione secessionista, che conta 700 mila abitanti su una striscia di terra larga poche decine di chilometri, non esiste sulle carte politiche dell’Europa. Nessuno stato l’ha mai riconosciuta ufficialmente. Nel 1990, quando il parlamento moldavo guidato dal Fronte popolare dichiarò la sua indipendenza dall’Urss, nella regione si trasferirono i quadri militari e politici dell’amministrazione sovietica che dichiararono a loro volta l’indipendenza dalla Moldavia. La separazione non fu indolore. Nel 1992 Chisinau cercò di riprendere il controllo sul territorio secessionista, ma il tentativo fallì: e sul campo rimasero oltre mille morti. L’intervento russo congelò il conflitto armato, riconoscendo al tempo stesso l’esistenza della repubblica.

Le finestre del hotel Drusba offrono una suggestiva vista sulla piazza del parlamento dove la statua a corpo intero di Lenin indica la via verso l’avvenire. È l’unico in città e ospita turisti (pochi), uomini d’affari di passaggio, uffici di aziende straniere, ambulatori medici e studenti fuori sede della vicina università. I prezzi per gli stranieri sono maggiorati, secondo la regola già in uso in Unione Sovietica.

Sulle strade ampie circolano poche auto, anche se colpisce l’alta percentuale di vetture di grossa cilindrata. I pochi giovani che si vedono sono soldati, con la tipica canottiera bianca e blu a righe orizzontali sotto la divisa verde. Percorrono in lungo e in largo le strade del centro a gruppi di due-tre, parlottando rilassati.

LA TERRA DEI GAGAUZI. La corriera percorre la sottile e accidentata lingua d’asfalto che taglia chilometri e chilometri di colline di girasoli e grano. Di tanto in tanto incrociamo monumenti al contadino socialista, insegne colorate, ma ormai scrostate, delle aziende collettive sovietiche. La Moldavia era il granaio dell’URSS, oltre che il fornitore del miglior vino. Comrat, la capitale della Gagauzia, é un villaggio espanso, dilatato, di circa settantamila anime. Le lingue parlate sono il gagauzo e i russo, pochi conoscono il moldavo.  La corriera si ferma ad un incrocio. Schiere di case a tre-quattro piani si affacciano da lontano, intorno edifici non finiti, terra battuta da cui si alzano nuvole di polvere e sterpaglia; un’anziana Rom vende sementi seduta su una sedia. L’arrivo di un forestiero desta molta curiosità. Lungo la strada, inaspettatamente ampia per una cittadina di queste dimensioni, le donne, di guardia davanti ai loro cancelli, fanno commenti; i bambini, invece, mi seguono a distanza. L’autista, prima di ripartire, domanda se voglio scendere proprio a Comrat.

La piccola pensione dove alloggio è anche il solo locale della città aperto fino a tardi; la sera vi si radunano giovani coppie, piccole comitive e i parlamentari locali. Alla televisione danno una telenovelas argentina doppiata fuori tempo in russo e sottotitolata in romeno. I cani abbaiano continuamente e presidiano ogni strada. Poco distante, su un’altura, c’è la sede dell’unica università al mondo dove s’insegna in gagauzo, una specie di dialetto turco. Al mattino una folla chiassosa di studenti affolla il corso principale. E’ la giornata dei pedagoghi e ognuno di loro porta alla propria insegnante un fiore in segno di ringraziamento. Bancarelle, carri, montagnole di peperoni e pomodori: è il mercato che appare all’improvviso sulla strada che porta alla stazione.